la pendola

 

Era soddisfatto. Aveva sempre desiderato possedere una pendola: quell’andamento regolare, su e giù, del pendolo lo aveva sempre affascinato. E poi c’era il rito della ricarica: inserire quella chiave tutta lavorata nel suo alloggiamento e girarla, lentamente, progressivamente, ascoltando con piacere quel leggero rumore metallico, quel lieve cric-cric-cric prodotto dalle ruote dentate mentre il contrappeso si sollevava; e poi ricominciare l’operazione con l’altro contrappeso, chiudere lo sportello ed abbandonarsi al monotono ticchettio che, in concomitanza delle ore, esplodeva in un tripudio di campane. E quella era proprio una bella pendola, come non ne aveva mai viste. Si sedette sul divano, si versò due dita di brandy e si mise a contemplare quel capolavoro di meccanica.

Ce l’aveva solo da una settimana, ma gli pareva di averlo avuto da sempre. E pensare che tutto era avvenuto per caso, quella sera in cui, dopo aver terminato di sparecchiare la tavola, si stava accingendo ad accendere la televisione. Fu proprio in quel momento che aveva sentito quelle urla sommesse provenire dal piano superiore, seguite da un tonfo sordo. Si era immediatamente insospettito, anche perché il signor Giuseppe, quell’inquilino solitario e schivo che viveva nell’appartamento sopra al suo, era tutto il giorno che spostava mobili senza interrompersi neppure all’ora del pranzo. Era salito di corsa le due brevi rampe di scale per bussargli alla porta: «Signor Giuseppe! Sono Giovanni: si sente bene?»

Nessuna risposta.

«Signor Giuseppe! Riesce a sentirmi?» aveva continuato alzando il tono e bussando con maggior vigore. Nel frattempo sentiva che gli altri inquilini dello stabile dovevano essersi avvicinati agli usci per sentire cosa stesse succedendo, ma quello era un condominio strano, dove ciascuno pensava ai fatti suoi ed a stento ci si salutava quando ci si incontrava per le scale. Ben presto, però, aveva udito la voce inconfondibile di Salvatore, il portinaio, ruvida come carta vetrata grazie ai quattro pacchetti di sigarette senza filtro che snocciolava ogni giorno: «Cosa sta succedendo?»

«Credo che il signor Giuseppe si sia sentito male!»

Salvatore pigiò con forza il campanello, che strillò a vuoto. Allora senza esitazione estrasse dalla tasca un grosso mazzo di chiavi ed inserì quella giusta nella toppa. Quando aprirono la porta rimasero per un attimo immobili a fissare la scena che gli si presentò: pareva che fosse passato un ciclone, poiché quasi tutti i mobili erano stati spostati, i cassetti aperti e svuotati con furia selvaggia. Anche i tappeti che adornavano copiosi il pavimento erano stati sollevati per poi essere gettati lontano, alla rinfusa. La grande libreria che campeggiava nel salone era stata svuotata dai numerosi libri, che giacevano sparsi per terra, alcuni aperti ed altri chiusi, senza un ordine preciso.

Al centro di questo caos giaceva il corpo del signor Giuseppe, supino. Aveva ancora gli occhi aperti, anche se ormai non possedevano più luce, ed i capelli sudati appiccicati al cranio e la bocca contorta in una smorfia di panico e di dolore facevano di quel volto una maschera inquietante.

Non c’erano dubbi: era morto. Eppure, fino al giorno prima, pareva sprizzare salute da tutti i pori.

Mentre Salvatore chiamava il pronto intervento, Giovanni aveva cominciato, seppur con cautela, a controllare le stanze per accertarsi che non vi fosse nascosto qualcuno. Anche gli altri locali erano ridotti come il salone centrale, come se una banda di svaligiatori avesse passato al setaccio tutta la casa. Eppure tutte le finestre risultavano ben chiuse ed anche il portoncino d’ingresso era stato chiuso, ovviamente dall’interno, con due giri di chiave. Almeno così gli pareva di ricordare.

Era andato a controllare: in effetti c’era ancora un mazzo di chiavi appeso alla serratura interna. Sembrava proprio che il poveruomo dovesse essere impazzito di colpo.

Ben presto arrivarono i soccorsi ed il medico non poté che constare il decesso.

Poco dopo giunse anche la polizia che cominciò a compiere i rilievi di rito.

«Lo conosceva?» chiese un uomo pacioso con due grossi baffi neri ed un paio di occhi acuti che si era presentato come l’investigatore capo.

«Non particolarmente: in questo caseggiato ognuno pensa ai fatti suoi. E il signor Giuseppe non era di certo uno che chiacchierava con facilità. Si figuri che circa un anno fa aveva partecipato a quella sciagurata cena di nozze in cui tutti morirono di botulino: ebbene lui fu l’unico che sopravvisse. Che non si fosse neppure recato all’ospedale lo apprendemmo dai giornali!»

«Sì, sì, mi ricordo - fece l’investigatore aggrottando le sopracciglia con fare serio - fu una vera tragedia! Quei criminali avevano riciclato una crema di mascarpone, o qualcosa di simile, conservata malissimo, per confezionare la torta e tutti i venti commensali ci lasciarono la pelle, tranne uno! Forse non gli piacevano i dolci!»

«No, no: ricordo benissimo che il cameriere testimoniò che tutti avevano assaggiato almeno una fetta di quella torta, eppure…»

«Beh, pensiamo al presente: cosa l’ha spinto a venire a dare un’occhiata qui su?»

Allora Giovanni raccontò dei rumori sentiti per tutto il giorno, che giustificavano quella confusione indescrivibile, poi l’urlo ed il tonfo.

«La ringrazio della testimonianza; Se avrò ancora bisogno di lei la chiamerò. A questo punto credo che si tratti di morte naturale, magari a seguito di un attacco di pazzia. Sarà comunque il medico legale a confermarcelo! Ah, un’ultima domanda: che lei sappia, il signor Giuseppe aveva qualche parente o qualche amico?»

Giovanni ci pensò su un momento. «No! Non mi risulta: come le ho detto era un tipo piuttosto solitario, un vecchio scontroso e inacidito, anche se, ultimamente, pareva più allegro, più sicuro di sé, oserei dire… più giovane. Ed ora è lì disteso, pronto a concimare margherite!»

Il giorno dopo la polizia era riuscita a rintracciare un lontano parente, un terzo cugino, che viveva a centinaia di chilometri di distanza. Giovanni si era detto disposto a fungere da recapito e, quando questo cugino era arrivato per sbrigare i vari adempimenti, si era premurato di trovargli una sistemazione presso una pensione a due passi da lì, accogliente e non troppo dispendiosa.

«Ho appuntamento al commissariato: credo vogliano darmi notizie di mio cugino. Avrebbe voglia di accompagnarmi? Mi farebbe un gran favore: non sono molto pratico della città ed ho un orientamento da far schifo. Se mi mandano in giro a fare carte, sicuramente mi perderei, Sono disposto a pagarle il disturbo!»

Giovanni guardò quell’ometto elegante e spaesato ed abbozzò un sorriso: pareva veramente un pesce fuor d’acqua. Tutto sommato poteva scarrozzarlo in giro: aveva ancora un paio di giorni di ferie arretrate che doveva assolutamente consumare entro il mese, altrimenti le avrebbe perse. Almeno non le avrebbe sprecate.

«D’accordo, non c’è problema: l’accompagno! Purtroppo in questo momento non ho la macchina e…»

«Ma figuriamoci! Useremo la mia: mi pare il minimo che possa fare!»




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  © Paolo Mameli