La bauta, la “muta” e le belle statuine
domenica 20 febbraio 2011
Tra poco sarà Carnevale. O meglio, a dire il vero, dovremmo già esserci dentro poiché, stando al calendario canonico l’inizio avviene sette domeniche prima di Pasqua, ma il clou, stando ai programmi, dovrebbe iniziare con la prossima domenica.
Come al solito si prevedono frotte di turisti che piomberanno in città, soprattutto per vedere le maschere. Già, le maschere… Da un po’ di anni a questa parte se ne vedono sempre di meno tanto che quei pochi che decidono di travestirsi, indipendentemente dalla qualità del costume, sono regolarmente accerchiati da stormi di fotografi assetati di scatti da riportare a casa per mostrare la Venezia che ci si immagina.
Eppure, non è sempre stato così, anzi! Senza scomodare i fastosi e scatenati Carnevali narrati da Goldoni o riportati dalle antiche cronache, basta tornare indietro di una trentina d’anni, era il 1979, per vivere una vera e propria rinascita di questa festa che era andata a spegnersi sempre più rimanendo confinata al mondo dei ragazzini o a qualche festa snob. Per una incredibile quanto unica, e a mio avviso tuttora misteriosa, sinergia di eventi, volontà e passaparola, il Carnevale esplose: bisogna aver vissuto quei giorni per avere un’idea di cos’era il Carnevale di Venezia! Praticamente la città intera si era mascherata, ma non per imposizione, bensì per libera scelta, per puro gusto del divertimento fine a se stesso: girotondi improvvisati attorno ad un fuoco, orchestrine estemporanee decise lì per lì da gruppi di amici, alle quali senza problemi altri si aggregavano. Ma la contaminazione non si limitava a questo, bensì era penetrata un po’ dappertutto: nei negozi, dove commessi e clienti erano mascherati, nei luoghi della cultura, addirittura in taluni uffici. Celebre fu la notizia dell’orchestra della Fenice (all’epoca ancora intatta e gloriosa) che, in segreto, andò a suonare una serenata sotto le finestre del Sovrintendente, le Danze Macabre sulle note dei Carmina Burana e le tante, tantissime rappresentazioni teatrali. Le calli erano letteralmente intasate, ma non c’erano problemi: tutti si divertivano lo stesso, perché c’era la voglia di divertirsi. Chi poteva si travestiva, secondo il proprio gusto e le proprie (talvolta mancate) ispirazioni: scatenate Bande Bassotti, coppie di Blues Brothers che si incontravano guardandosi stupite, vampiri, licantropi, ma anche Dogi, cavalieri medievali con tanto di spada e armatura, cicisbei e dame di ogni epoca. Ma c’erano anche coloro che avevano centrato lo spirito del Carnevale, creando maschere e quadretti spiritosi e arguti: dai provocatori organi riproduttivi di Spiller e Lovato, al camuffamento da San Teodoro, il Tòdaro della colonna, con tanto di drago tra le gambe o da Gioconda che, inquadrata da una massiccia cornice, strizzava l’occhio al buon Leonardo che, in quel momento, la stava dipingendo. Oppure imperterriti gentiluomini in completo fumo-di-Londra e Financial Times tra le mani con un’improbabile scolapasta a guisa di cappello, Omini Michelin, Enrichi VIII con mogli appresso, Caterine Cornaro e boia neri con tanto di scure in mano. E i fotografi impazzavano.
Purtroppo fra questi ce n’era uno di molto famoso che decise di fotografare solo un certo tipo di maschere per poi farne un calendario: si concentrò su quelle che venivano definite “di fantasia”, non perché ce ne volesse tanta per realizzarle, ma perché nessuno era in grado di collocarle essendo totalmente inespressive, sintomo della società del figurare che era lì lì per venire. Il calendario ebbe un successo enorme e, di conseguenza, tali camuffamenti cominciarono a proliferare. E quindi giù con volant di organza colorata, perline e nastri colorati, fiocchi di ogni genere e l’immancabile maschera sul volto. Ma non la classica e storica bauta, ma una più anonima derivazione della “muta”, o moreta, dalla bocca chiusa e l’assoluta assenza di espressione, che si teneva su stringendo un perno con la bocca, da cui l’impossibilità di parlare e da qui il nome. Un tempo questo tipo di maschera aveva una sua funzione ben precisa: far sì che gli astanti non riconoscessero chi vi era celato dietro, un po’ come accade nel finale del film Amadeus quando Salieri si traveste per commissionare il Requiem. Ma per il Carnevale veneziano era solo sinonimo di rigidità e assoluta inidentificazione, talvolta anche di natura sessuale tanto che si faceva difficoltà a distinguere gli uomini dalle donne.
E come capita nel mondo animale, le specie più prepotenti hanno il sopravvento e, in breve tempo, soverchiano ed eliminano le altre, anche per il Carnevale è avvenuto che questi travestimenti insulsi hanno soppiantato quelli più fantasiosi, stimolati dalla speranza di finire in qualche modo su di una cartolina o su di un calendario. A tal proposito mi è capitato di assistere ad una scena al limite tra l’imbarazzante ed il ridicolo: due macere di questo genere, immobili in attesa di essere in qualche modo immortalate, non appena hanno visto un fotografo addobbato da costose apparecchiature, si sono precipitate a mettersi in posa, cercando di piazzarsi davanti alla concorrenza per avere il privilegio dell’esclusiva.
A questo triste fenomeno, poi, se ne aggiunsero altri che, purtroppo, condussero questa incredibile festa ad un’inaspettata quanto piuttosto rapida agonia.
Innanzitutto ci furono i politici (sì, sempre loro!). Se nei primi anni della rinascita furono il Comune e la Biennale, affiancati da quel genio di Scaparro, a rendere unico e incredibile il tutto proponendo la massima libertà di sfogo, sempre entro i limiti del buon gusto e della civiltà da tutti rispettati senza problemi, con un cambio di giunta qualcuno decise che in Piazza si doveva girare solo con costumi del Settecento veneziano per un improbabile, quanto assurdo, rispetto al luogo. Niente teatrini, niente balli collettivi ma solo musica classica a nastro. Io di musica classica sono molto appassionato ma in quell’occasione, devo ammetterlo, l’ho detestata: sbrindoli di Borodin accostati a Mozart e all’immancabile Vivaldi ripetuti a loop fino a darti fastidio. Nemmeno nei campi c’era più libertà di divertirsi: tutto doveva essere organizzato secondo i dettami dell’assessore e se si imbriglia una manifestazione spontanea la si condanna a morte. Non una morte repentina, ma un graduale e inesorabile declino. Declino al quale contribuì la seconda voce in causa: gli sponsor. Il Carnevale di Venezia era un boccone troppo ghiotto per lasciarselo scappare e così un bell’anno il programma fu affidato ad un gruppo emergente di televisioni commerciali (che a mio avviso hanno rovinato anche la televisione in genere, ma questa è un’altra storia) le quali anziché adattarsi alle esigenze del Carnevale, adattarono il Carnevale alle proprie esigenze trasferendo di sana pianta in Laguna i loro programmi da “OK Il prezzo è giusto” ad altre amenità simili, senza praticamente cambiare nulla se non la location (tendoni in Campo San Polo) e il look dei conduttori che, per l’occasione, si erano messi un po’ di lustrini sul volto e qualche volta indossavano una piccola maschera per poi subito togliersela. Risultato? Lo squallore totale ed un sempre maggiore distacco tra organizzatori e popolazione. Crisi e piogge fecero il resto.
Ormai sono anni che non vedo qualcosa di decente, ma solo sparuti gruppetti di turisti stranieri che vengono da noi col “tutto compreso”, e quindi anche con il costume, e finiscono col fotografarsi tra di loro. Anche gli spettacoli lasciano piuttosto a desiderare (la Fenice è l’ombra di se stessa: figuriamoci che un anno, in occasione di un carnevale dedicato alle “turcherie”, fu allestito un memorabile Ratto nel Serraglio ed un recital con la grandissima soprano di origine turca Leyla Gencer), con allestimenti dai costi contenuti e senza particolari nomi “di grido”.
Spero tanto che quest’anno le cose vadano meglio ma, forse sarò pessimista, non credo che la situazione migliorerà. I V.I.P. si rinchiuderanno nei palazzi per le feste esclusive e a tutti gli altri resterà qualche svogliato spettacolo e le solite quattro maschere, molte delle quali senza espressione. Magari indossata per celare un’espressione delusa.