I nizioleti e la squadra
martedì 19 aprile 2011
Per chi ancora non lo sapesse, i nizioleti (letteralmente lenzuolini) sono quei riquadri bianchi che indicano i nomi delle calli, dei campi o dei ponti. Hanno origini discretamente antiche, poiché risalgono al periodo della dominazione franco-napoleonica, e quindi a cavallo tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800 e ormai fanno parte integrante del panorama urbano della città. Finora, e sono parecchi anni che li vedo, erano sempre stati dipinti con una specie di normografo che creava una scrittura piacevole, morbida e, tutto sommato raffinata. Ma a quanto pare a qualcuno le cose belle non piacciono e oggi, passeggiando tra calli e canali, mi sono imbattuto in un paio di nizioleti nuovi di zecca: subito l’occhio mi è caduto sul tipo di scrittura ed è stato come se avessi ricevuto un pugno sullo stomaco. Le lettere, sempre realizzate col normografo, avevano una sagoma squadrata a dir poco sconcertante. Qualcuno di voi potrebbe obiettarmi che una sagoma vale un’altra, purché si legga: i problemi di questa città dopotutto sono ben altri. È vero, ci sono problemi assai maggiori anche considerando solo il semplice arredo urbano, a partire dai cartelloni in Piazza San Marco per arrivare ai tremendi pontili che danno sul Bacino, ma talvolta sono proprio i particolari che iniziano una perversa catena. Sono un po’ come quelle infinitesime macchioline di ruggine che, se non le si note e, soprattutto, non le si estirpa sul nascere, cominciano a moltiplicarsi, a moltiplicarsi, a moltiplicarsi: sempre di più… sempre di più… fino a devastare tutta la superficie che sono riuscite ad intaccare.
Può darsi che dipenda dalla mia professione, ma la forma di un carattere, di una scrittura (o, come si usa dire oggi mutuando un linguaggio anglo-informatico, un font) è fondamentale per comunicare un’impressione, un sentimento, una sensazione. Esistono studi in proposito e affrontare l’argomento è veramente affascinante: ogni scrittura ha la sua evoluzione e il suo inquadramento storico. Se prendiamo ad esempio la scrittura cosiddetta “gotica”, quella delle miniature per intenderci, viene considerata dai tecnici una texture, ossia una trama tessile, perché le lettere sono regolarissime, inscritte in ipotetici rettangolino stretti e lunghi, e questo derivava dal fatto che la carta pecora, o quant’altro il miniatore avesse usato, era costosissima e quindi bisognava letteralmente ottimizzare lo spazio. Medesimo discorso per i caratteri “romani” cioè quelli con le grazie, i peduncoli che sporgono agli estremi delle aste, aguzze come spilli. E questo si spiega perché si tratta di una scrittura che deriva da quella, nitidissima, usata appunto dai Romani per decorare i monumenti marmorei come gli archi di trionfo. Creare queste grazie con un abile colpo di scalpello era facile, molto di più che crearne di curve o a ricciolo. E l’elenco sarebbe pressoché infinito: il Garamond di derivazione aldina, da Aldo Manuzio, il classicissimo Bodoni, campione assoluto di eleganza, e così via. Recentemente, si fa per dire, con il modernismo imperante si decise di eliminare le grazie lasciando le lettere “nude” e quindi nacquero i caratteri Futura, Arial, Helvetica ecc.
Ma ora ritorniamo ai nostri nizioleti: come ho cercato di spiegare ogni scrittura ha il proprio “carattere” e se devo pubblicizzare un profumo non userò una scrittura larga e massiccia come se dovessi fare pubblicità per una fabbrica di tondini di ferro dall’aspetto sovietico. I nizioleti precedenti avevano qualcosa di elegante che, come ho detto, si amalgamava con quanto gli stava attorno; questi nuovi sono totalmente avulsi dal contesto: Venezia, per sua natura, è un insieme di linee curve e spezzate, vuoi per i canali, vuoi per le facciate mai visivamente statiche di case, chiese e palazzi. Eppure così è: andare a vedere per credere.
Speriamo che sia solo un esperimento o che, semplicemente, sia stato un errore da parte di chi gli ha compilati poiché aveva preso le dime sbagliate.
E a proposito di errori, ora ve ne racconto una che ha dell’incredibile. Quando stavo scrivendo la guida su Rialto, per disegnare le piantine mi rifacevo sì alle mappe, ma andavo sempre a verificare in loco e quando ho tracciato l’itinerario della Venezia antica che passava per la Corte I e II del Milion dove sorgevano le case dei Polo (Marco compreso), sullo stradario mi trovo un ponte denominato Ponte Marco Polo. Il nome subito mi puzza di falso: a Venezia ci sono pochissime denominazioni toponomastiche con nomi propri, salvo non siano riferite a eroi della storia recente come Nazario Sauro, Daniele Manin o i Fratelli Bandiera. In genere riportano il nome dell’attività prevalente che si esercitava da quelle parti (Spadaria dove si forgiavano spade, Frezzeria per le frecce, del Scaleter per i pasticceri) o alla chiesa più o meno parrocchiale che, in genere, dava nome al campo antistante (S. Zanipolo, S. Trovaso, S. Barnaba) oppure alla famiglia patrizia che aveva il palazzo o le case in quella zona (Carampane da Ca’ Rampani, case dei Rampani, Pisani, Foscarini ecc.). Ma nomi propri mai: non ci sono Calle Enrico Dandolo o Campo Andrea Gritti. Allora sono andato a verificare di persona: il nome indicato era quello, dedicato al grande viaggiatore. Quando però ho dato da controllare il testo all’amico Franco Filippi, venezianissimo doc, la cui storica casa editrice ha tra i gioielli le Curiosità Veneziane scritte da Giuseppe Tassino e che indica appunto l’etimologia toponomastica di buona parte delle calli e dei campi della città,, mi telefona dicendo che quel nome è sbagliato: si chama, e si è sempre chiamato, Ponte Scaleta, poiché prende nome dalla Calle Scaleta di cui è la propaggine che attraversa il rio. «Ma sulla mappa è scritto così e anche il nizioleti dice così!» gli ribatto, ma lui mi risponde col suo simpaticissimo tono spiccio «E alora? I se ga sbaglià. No ti ga idea de quanto che i se sbaglia!» (E allora? Si sono sbagliati. Non hai idea di quanto si sbaglino!” - traduzione per i lettori foresti). Dopo tanta accesa convinzione, per risolvere il dilemma non mi rimane che telefonare all’ufficio preposto che si nomina appunto “Ufficio Toponomastica” del Comune di Venezia.
Quando porgo la questione all’impiegato, questi sembra cadere dalle nuvole. Dapprima cerca di evitare le risposta trincerandosi dietro non so, non sono io che… e così via. Poi pressato dalla mia richiesta, suffragata dal fatto che in una guida non posso mettere nomi sbagliati, va a controllare nel database del Comune, quello ufficiale. E secondo voi era Ponte Marco Polo o Ponte Scaleta? Nessuno dei due, ma Ponte del Teatro, che prende nome dalla minuscola fondamenta che affianca il retro del Teatro Malibran. Mi hanno promesso che subito il tutto sarebbe stato corretto. Io non ho più verificato, ma non mi meraviglierei che quel ponte oggi abbia un nome nuovo, magari di fantasia. E scritto con un caratate che di fantasia proprio non ne ha nessuna!
Il vecchio nizioleto di Ponte Bernardo a San Polo…
…e quello nuovo
P.S.:
Oggi, 20 aprile, sono proprio voluto passare per il “sedicente” Ponte Marco Polo: con mia sorpresa (mica tanta, in verità), sul nizioleto c’era ancora il nome del viaggiatore veneziano, a circa un anno dalla mia segnalazione.
Per concludere userò un acronimo matematico: C. V. D., ovverosia Come Volevasi Dimostrare.
COMMENTI
Che orrore!! Non li avevo ancora notati, ma questi nizioleti sono terribili!! o meglio, è terribile il tipo di carattere utilizzato! Ma qui è in corso una gara a chi rovina con maggior danno la nostra povera Venezia!
(Walter Fano - Venezia)